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Il Poeta dell’Olocausto

Nell’estate del 1946, sulla riva del fiume Rabca, vicino alla località di Abca, in Ungheria, fu riaperta una fossa comune, nella quale giacevano ammassati i corpi di una moltitudine di deportati, trucidati sul posto con un colpo alla nuca nel novembre del 1944. Nella tasca di quello che doveva essere stato un cappotto appartenente a uno dei cadaveri fu trovato un taccuino contenente poesie. Quel taccuino, in seguito denominato “Il taccuino di Bor”, dette modo di identificare quel cadavere e di riconoscerlo sotto il nome di Miklós Radnóti, lirico dalle singolari qualità, cantore di elevato spessore poetico. Nato a Budapest nel 1909 da famiglia ebrea, morto fucilato nel 1944 per mano dei nazisti, fu l’unico che riuscì a scrivere poesie di alta valenza lirica, dedicate alla moglie, Fanni Gyarmati, in un campo di concentramento, mentre il freddo dilacerante gli sferzava le dita. Poesie che ebbero il merito e il potere di resuscitarlo tra centinaia di corpi inerti, strappandolo alla curva inesorabile dell’oblio.

I suoi ultimi versi prendono luce e intensità proprio dalla condizione in cui sono stati scritti. Eccone un esempio:

Algido è quest’inverno arso di guerre:

e l’anima già debole a resistere

si prepara a piegarsi alla violenza.

Pensiamo all’estate! Quando metteranno fronde  

i nostri boschi: bello sarà camminarvi  

mentre nel denso profumo dei nostri giardini

s’impiglierà tra le rame la noce che sta per cadere.

Pensiamo al finire delle sere dorate: in mezzo

al rimbalzare delle palle strilleranno

matassa aggrovigliata le torme dei bambini:

sventaglianti criniere, i lucenti cavalli  

si lanceranno là verso il tramonto  

e sulla nostra testa sarà tutta  

un cinguettio di rondini la bruna grondaia.  

Sarà così? Sarà così! Perché alfine  

dovrà esserci la pace.

Oh, resisti anima, fino ad allora: difenditi.

 Da “Inno alla pace”

#ricordareperevitareheilmaleabbialultimaparola